La malattia delle nostre città, come cambiano le aree urbane

Il 'Corriere della Sera' si è recentemente cimentato nella compilazione di una graduatoria di vivibilità di varie zone urbane, basata su parametri come costi delle case, decoro urbano, presenza di servizi e altre variabili. Nei loro commenti, alcuni urbanisti e architetti tuttavia sono andati più a fondo, interrogandosi su come sono cambiate le città nella loro struttura e com'è cambiato il nostro modo di viverle. Ce lo siamo chiesto anche noi...

La malattia delle nostre città, come cambiano le aree urbane
Cementificazione, aree metropolitane, decentramento amministrativo e chiusure dei centri storici sono solo alcuni dei tanti problemi che oggi si trovano ad affrontare le nostre aree urbane. Proviamo a fare un esercizio: consideriamo la città com’era intesa un tempo, cioè come una comunità di persone che condividevano, oltre alla vicinanza, storie, dialetti, identità, retaggi, abitudini, capacità economiche, patrimoni artistici e culturali, tradizioni gastronomiche e tanto altro. Città che corrispondevano in effetti a comunità quando avevano dimensioni contenute, mentre quando diventavano molto grandi erano insiemi di comunità, le comunità di quartiere. Oggi questo scenario non esiste quasi più, eccezion fatta per qualche borghetto di montagna o paesino della bassa. Non vogliamo soffermarci adesso sulle evoluzioni sociali, culturali, economiche che hanno fatto sì che smettessimo di considerarci membri di una comunità per diventare semplici concittadini, residenti nello stesso luogo e basta. Può però essere interessante esaminare il collegamento fra la struttura stessa della città e la perdita di quei valori. La prima tendenza urbanistica che anche una persona non addetta ai lavori come me può cogliere a occhio nudo è un generale spostamento dal centro alla periferia. Sono molti i fattori che stimolano questo trasferimento, dall’aumento dei prezzi delle case al degrado, dalla blindatura dei centri storici all’insicurezza. Già, perché la credenza che spaccio, furti, scippi e reati di questo tipo siano 'roba da periferia' è ormai infondata e sono sempre di più le città in cui le zone problematiche dal punto di vista sociale e della pubblica sicurezza coincidono con il centro. Un altro problema, strettamente collegato, è quello della progressiva chiusura dei centri storici alle auto, agli esercizi commerciali, alle manifestazioni di piazza, ai locali e a tutti i frequentatori che, in un modo o nell’altro, valorizzavano il centro stesso. La devitalizzazione del centro passa per la chiusura delle piccole attività tradizionali, dei cinema, dei mercatini e per la perdita di attrattiva delle aree di interesse, quali parchi, musei, locali, bellezze architettoniche. Molto semplicemente quindi la gente non solo sta andando ad abitare in periferia, ma ha anche perso quasi tutti gli interessi che la portavano a frequentare il centro. Fra questi interessi c’era anche il lavoro: alla costruzione dei grandi distretti industriali fuori dalle città si sta aggiungendo oggi il progressivo decentramento dei servizi e delle attività del settore terziario. Gli uffici si stanno spostando nelle aree che già da alcuni anni ospitano fabbriche, laboratori e officine, col risultato che sono sempre di più coloro che il centro non devono più frequentarlo neanche per lavorare, oltre che per abitarci o per svolgere altre attività una volta lì ubicate. A questa nuova tendenza si aggiunge uno sviluppo urbanistico generale della città spesso sconclusionato, fondato su trasporti pubblici mal concepiti e implementazione delle infrastrutture per la mobilità privata, su una politica costruttiva sempre e comunque improntata alla crescita e all’espansione, su una scarsa connessione col territorio che viene sempre più isolato e frazionato, non solo rispetto all’asse centro-periferia, ma anche fra le varie periferie e fra l’area urbana e la cintura suburbana. Purtroppo però questo frazionamento non consiste in una sorta di ritorno alle comunità di quartiere di cui parlavamo prima, quanto piuttosto in una chiusura quasi totale che cura più i rapporti e i collegamenti a lungo raggio, attraverso le grandi 'infrastrutture dell’assurdo' (TAV, tangenziali e autostrade a quattro corsie, addirittura voli aerei), che quelli a corto raggio. Con il paradossale risultato che le grandi metropoli sono collegate meglio fra loro – nonostante siano separate da centinaia o migliaia di chilometri – che con le altre città del circondario. Questo quadro comincia a essere chiaro quando introduciamo un’ulteriore variabile, rappresentata dai grandi centri commerciali e dai poli del consumo. Se ci pensate bene, tutte le infrastrutture che dovrebbero servire le aree di interesse storiche della città, vengono invece dirottate verso queste aree: servizi pubblici, parcheggi (perché la mobilità privata viene sempre preferita e incentivata), strade di accesso, oltre a strumenti burocratici come concessioni edilizie, licenze commerciali e finanziamenti. Questi sono i nuovi centri storici delle nostre città, che spostano completamente la polarità secondo la quale esse sono state costruite per disegnare un nuovo modello. Nessuno avrà più bisogno di spostarsi da un quartiere all’altro o dalla periferia al centro, perché qui troverà tutto ciò che gli serve, sapientemente accorpato in un’unica, gigantesca struttura: negozi, cinema, ristoranti, servizi pubblici e così via. Con due sottolineature da fare: la prima è che la tipologia di queste attività è particolare ed è quella delle grandi aziende multinazionali, delle catene della Grande Distribuzione Organizzata, dei franchising dell’intrattenimento e della ristorazione. Non c’è spazio per nulla che rimandi al territorio, per tipicità produttive e artigianali né per produttori locali. La seconda considerazione è che queste aree chiuse isolano quasi scientificamente il frequentatore da tutte le attrazioni che possono in qualche modo distrarlo: luoghi di interesse artistico, culturale o architettonico, parchi, musei. Tutto deve essere finalizzato al consumo e basta. Il problema è che queste gravi inversioni di polarità, questi nuovi disegni che modellano le nostre città, sono insostenibili da tutti i punti di vista. Da quello sociale, poiché disintegrano il tessuto della comunità, ne separano i membri e favoriscono la nascita di ghetti, antagonismi e tensioni. Da quello economico, poiché provocano la scomparsa di tutte le attività tradizionali e legate al territorio, dirottando i soldi investiti dalla comunità nelle casse di aziende che hanno sedi e operatività in tutt’altri luoghi. Da quello ambientale, perché la riduzione dell’impronta ecologica non è mai un parametro considerato, perché il traffico privato viene incentivato, i trasporti pubblici vengono resi inefficienti e le distanze da percorrere – e, di conseguenza, l’inquinamento – aumentano sempre più. Da quello amministrativo, essendo le istituzioni sempre più succubi di questo sistema e incapaci di piantare dei paletti, di porsi a tutela del territorio e dei suoi abitanti, di fermare la cementificazione e di ristabilire la polarità corretta rivitalizzando i centri storici e le aree di reale interesse della città. Infine, sono insostenibili dal punto di vista prettamente urbanistico, poiché una città pensata male non può funzionare a lungo: traffico sempre crescente, mercati immobiliari inaccessibili, livelli di inquinamento elevatissimi, degrado e insicurezza sempre più ingestibili, consumo del territorio inarrestabile sono i sintomi della malattia che sta aggredendo le nostre aree urbane. In molti casi lo stato di avanzamento è molto grave e la cura deve essere rapida e radicale.

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