Quanto vale una laurea. Abolire o non abolire il valore legale?

Il governo rinvia la decisione di abolire il valore legale della laurea universitaria. Che senso avrebbe smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Quali sono le ragioni degli abolizionisti? Cosa comporterebbe la demolizione di un presidio pubblico come la laurea? L'analisi di Piero Bevilacqua, professore ordinario di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma.

 Quanto vale una laurea. Abolire o non abolire il valore legale?
Il presidente del Consiglio e il suo governo hanno dunque deciso di rinviare la decisione di abolire il valore legale della laurea universitaria. Non trattandosi di una materia che rivesta particolare urgenza c'è tutto il tempo per decidere con ponderazione ed anche per aprire una consultazione nel Paese. Mi sembra un scelta saggia, espressione, forse, di quella saggezza che Asor Rosa ha ricostruito analiticamente sul Manifesto come pilastro di questo esecutivo e dell'operazione politica generale su cui si reggono oggi le sorti dell'Italia. Potrei anche aggiungere che la scelta inaugura un apprezzabile stile di coinvolgimento democratico degli italiani, che oggi vorremmo esteso ad altre questioni: per esempio ai problemi della Val di Susa, al conflitto sul TAV, a cui sinora si è risposto con la militarizzazione del territorio e con la criminalizzazione di una intera popolazione. Ma non sono sicuro di poter essere così magnanimo, per le ragioni che dirò alla fine. Debbo, peraltro, aggiungere che se si fosse proceduto immediatamente all'abolizione del valore legale, il governo avrebbe compiuto un atto di imperdonabile arroganza. E avrebbe ricevuto un contraccolpo di non trascurabile ampiezza. Come avrebbe potuto, dopo tutto quello che è successo, con il precedente esecutivo? Rammento che il governo Berlusconi, non ha soltanto, per quasi quattro anni, coperto di vergogna e di disonore il nostro paese, ma ha inferto colpi micidiali, i più gravi in tutta la storia della Repubblica, all'intero sistema dell'istruzione. Ha gettato letteralmente sul lastrico la scuola pubblica, dalle elementari alle superiori, ha ridotto nelle condizioni forse più precarie della sua storia recente l'Università. Oggi gli studenti italiani hanno sempre meno borse di studio per poter frequentare i corsi, pagano le tasse più elevate d'Europa dopo quelle del Regno Unito e dell'Olanda, ricevendo servizi sempre più scadenti per assenza cronica di personale amministrativo, spazi collettivi, orari delle biblioteche, rarefazione dei docenti. Al tempo stesso migliaia di giovani con in tasca la laurea con lode, dottorato, master vari, conseguiti talora anche all'estero, non sanno dove sbattere la testa, sono gettati nella più grave angoscia che una persona possa subire: la consapevolezza di avere alle spalle anni e anni di studi, di possedere saperi, idee, energie, volontà di essere utili al proprio paese e non sapere che cosa fare un giorno dopo l'altro. E a questa condizione, a tale drammatica situazione, nella sua prima uscita sui problemi dell'Università, il governo avrebbe davvero potuto rispondere con la grave decisione di abolire valore legale alla laurea? Ma entriamo nel merito della questione. Le argomentazioni più serie a favore dell'abolizione non reggono alla prova. Sostengono i fautori di tale scelta, che nei concorsi pubblici il voto di laurea altera la corretta valutazione dei candidati, premiando spesso gli immeritevoli che hanno strappato a buon mercato, in qualche Università di serie b, un alto voto. L'abolizione del valore legale metterebbe tutti in condizioni di parità. A questa apparentemente giudiziosa obiezione si possono tranquillamente fornire più risposte. Intanto, quello sollevato, è un problema che riguarda le norme sull'accesso alle professioni, le modalità con cui vengono valutati curricula, titoli, nei diversi concorsi. E lì che caso mai bisogna intervenire se si vuole essere più certi di premiare il merito, ma il valore legale della laurea non c'entra affatto. D'altronde, una cosa è la formazione universitaria, un'altra cosa sono le professioni. Per esempio, per l'accesso dei laureati all'insegnamento scolastico i legislatori italiani hanno di volta in volta varato dispositivi di 'abilitazione' alla professione, che si aggiungevano alla semplice laurea e fornivano un vantaggio concorsuale a chi la conseguiva. D'altra parte, nei concorsi pubblici si valuta la prova a cui i candidati sono sottoposti, non è certo il voto di laurea, da solo, a decidere della selezione. E le norme variano comunque da professione a professione. Gli abolizionisti ritengono invece che senza il condizionamento della laurea la valutazione sarebbe più libera, meno condizionata e premierebbe di più il merito. Ma è davvero così? Faccio notare che un giovane uscito dall'Università italiana ha svolto – a seconda della Facoltà – almeno tra 30 e 50 esami per conseguire la laurea. È stato cioè sottoposto alla valutazione di decine e decine di professori di diversi insegnamenti e ha subito il filtro legale di almeno due commissioni di lauree, se ha conseguito triennale e specialistica. Dunque ha superato innumerevoli 'piccoli concorsi'. Non c'è merito alla fine di una tale carriera? Perché queste numerose verifiche di formazione e preparazione non dovrebbero avere più per noi una validità legale, utile per valutare il merito di un candidato? Noi ci affidiamo alle cure di un medico perché ha vinto il tale concorso o perché sappiamo che è passato per lunghi studi e ha superato prove e verifiche accademiche lunghe e ripetute? Gli abolizionisti, ribattono: ma perché una laurea conseguita in una Università marginale deve avere lo stesso valore di una guadagnata in un ateneo di antico e riconosciuto prestigio? La risposta è, innanzitutto, che le Università realmente marginali sono davvero poche nel nostro paese. Oggi, che si emarginano quelle telematiche, lo sono ancor meno. Dobbiamo allora colpire e svalutare l'intero sistema universitario italiano? E come se a una persona che zoppica da un piede si prescrivesse il taglio di tutte e due le gambe. Ma quello che gli abolizionisti e in generale i 'riformatori neoliberisti', ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del paese. Le università, da noi, più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi. Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in un generale svilimento del nostro sistema formativo? Ma ostinatamente si perora la necessità di creare una “pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazioni a livello nazionale dei percorsi formativi”, come si continua a dire. Si vogliono giurie esterne a quelle già esistenti. Queste garantirebbero il riconoscimento del merito. Molti dirigenti di Confindutria spingono in tale direzione, e così alcuni economisti, mai paghi dei fallimenti sotto cui sono state seppellite le loro misere dottrine. Davvero, in Italia, questa sarebbe una soluzione desiderabile? In Italia, paese di antica e lacerante frammentazione? Paese storicamente alle prese con i più gravi problemi di legalità civile di tutto l'Occidente? Si abolisce valore a un titolo garantito da un lungo processo pubblico e lo si mette in mano agli interessi dei privati? Qual è la ratio, se non la superstizione neoliberista, che non vuol vedere l' infinita serie di fallimenti di cui ha costellato la recente storia del mondo? In realtà si vuole continuare a colpire tutto ciò che è pubblico, deregolamentare tutto ciò che è fissato in norme di valore collettivo, come si fa in altri campi: dai contratti nazionali del lavoro agli articoli della Costituzione. Credo che all'intelligenza dei lettori posso risparmiare ogni mio commento. Aggiungo solo che è con passi come questi, demolendo un presidio pubblico come la laurea, che si tende a piegare tutte le relazioni a logiche contrattualistiche private, a rapporti dare/avere e si avanza verso il dissolvimento del tessuto culturale del paese come comunità nazionale. Devo, tuttavia, concludere con un chiarimento. Tutte le considerazioni sin qui svolte si sono rese necessarie perché ho dovuto stare al gioco e prendere sul serio anche alcune fandonie neoliberali, che non meriterebbero alcun commento. Ma quel che occorre dire, e avrei dovuto dirlo subito, è che la questione del valore legale della laurea è solo e semplicemente una astutissima manovra diversiva del governo. Nulla di più. Altro che saggezza, caro Asor, qui si tratta di astuzia raffinata. Con l'aggiunta di tanta professionalità. Il professor Monti e alcuni suoi ministri hanno studiato marketing o comunque ne sono esperti. Oggi l'Università ha un disperato bisogno di soldi, di personale tecnico e amministrativo, di nuovi docenti e ricercatori, di Dottorati, di borse di studio. E che cosa orchestra il governo? Tira fuori un coniglio bianco dal cappello per incantare la folla, per dare in pasto ai furori contrapposti questo bel tema e distrarli per un po' dai problemi in cui annaspa l'intero sistema formativo nazionale. Non ci caschiamo. Il ministro Profumo non si faccia illusioni. Metteremo le questioni reali dell'Università al centro dell'attenzione e non sarà facile farci distrarre con qualche trovata pubblicitaria.

Commenti

Articolo certamente interessante. Mi sono laureato da circa 4 anni, prima triennale in una delle cosiddette università più "prestigiose" d'Italia (ovvero dove si formano i soldatini dell'esercito che annuncerà al mondo la Verità del Mercato) e poi ho fatot un master addirittura in una delle più celebrate università del mondo, i cui soldatini così formati potranno aspirare alla fasce alte dell'esercito mondiale. Volutamente esagero; nella realtà c'è molta più diversità di quanto si possa pensare, spazi di pensiero libero- per fortuna- e docenti talvolta non convenzionali. Ma per la gran parte quanto ho scritto corrisponde al vero. Ho vissuto per periodi più o meno lunghi in diversi posti del mondo, non solo in Europa, e credo che l'abolizione del titolo di studio non sia un passo sbagliato in sé. I dubbi sollevati nell'articolo sono tutti legittimi, e una misura del genere promossa da un governo di tecnocrati, banchieri, insomma evangelisti del neoliberismo, potrebbe effettivamente essere ispirata da intenti poco nobili. Su questo bisogna vigilare, distinguere, capire, studiare. Ciò non toglie che ho sempre considerato un'assurdità tutta italiana la disciplina dei concorsi pubblici, in cui migliaia di persone si scazzottano per un posto fisso, spesso assegnato tra truffe o amicizie. Se il valore legale del titolo di studio non trova la sua unica giustificazione nei concorsi pubblici, è lì che principalmente si applica, a mio avviso. I concorsi, credo, andrebbero aboliti, in favore di forme più flessibili di selezione, come del resto avviene altrove - e non mi sembra che in concorsi garantiscano trasparenza e meritocrazia. E a tal proposito, credo anche che non dovrebbero essere i titoli a parlare per una persona, ma i suoi pensieri, le sue azioni, le sue capacità. Se un 110 e lode può significare che un ragazzo si applicava e studiava, non mi dice niente della sua attitudine alle relazioni umane, della sua disponibilità al confronto, della sua apertura mentale, dei suoi principi etici.. tutti fattori che a mio avviso andrebbero considerati per qualsiasi incarico, e di cui l'attuale sistema non tiene conto in alcun modo. Se poi si vuole abolire il valore legale per esternalizzare l'ennesima funzione tipicamente pubblica a nuovi soggetti privati a scopo di lucro (come questo governo ha già fatto con i carceri), beh questo è un ulteriore motivo per spingerci a sbarazzarcene il prima possibile.
Luca Paolo, 01-02-2012 11:01
Condivido fondamentalmente le sue argomentazioni e vorrei aggiungere qualche mia opinione: non è giusto ignorare che una laurea è la conclusione di un percorso di studio,quindi deve essere considerata requisito necessario per accedere a determinati concorsi, che devono accertare seriamente le competenze richieste per svolgere una professione; però si dovrebbe ampliare la gamma di lauree per accedere ad alcuni concorsi, dato che un laureato può aver acquisito competenze che vanno oltre l'indirizzo di studi seguito.Circa il problema delle università "di manica larga",anche da queste possono uscire persone preparate,grazie al proprio impegno personale;tuttavia,dato che il problema esiste,si può risolvere non valutando il voto di laurea o dando ad essa un punteggio molto basso
lilipi, 03-02-2012 01:03
Sono nato subito dopo il dopoguerra e la nazione era devastata dalla miseria e dalle rovine; mio padre mi dette la possibilità di proseguire gli studi fino al diploma di perito industriale. In tutta la dinastia fu un avvenimento perché fui il primo a staccarmi da quella cultura di semi-analfabeti. Mi sentivo e sapevo di essere "realizzato nel sapere" nella media cultura del tempo. Oggi mi manca il traguardo della laurea e ho spinto anche a costo di impegni economici che i miei figli potessero avere questo "apprendimento". Nella vita di un uomo conta il "sapere e la conoscenza" e non basta a volte l'effimero abito firmato imposto dalla moda passeggera per vivere con piena coscienza. La cultura e stata ridotta a brandelli e smembrata nel nostro paese. A questi "uominicchi politici" diamo la possibilità di abbattere anche questa prospettiva seducente sulla cultura così non saremo più capaci di capire e valorizzare cosa esiste intorno a noi. Questo è il mio commento modesto in questo giorno freddo, sulle università. Lucio.
Lucio, 08-02-2012 02:08
Bevilacqua ha ragione:aprire la questione del valore legale della laurea è solo un "diversivo" da respingere. Il valore legale serve praticamente solo per i concorsi pubblici ( che sono comunque molti), ma per superare tale problema infiniti potrebbero essere i correttivi; basterebbe introdurre norme che diano un punteggio al voto di laurea, ma anche all'università dove è stata presa la laurea sulla base di una seria graduatoria annuale, pubblica, sul valore di ciascuna università, ecc. Dunque un falso problema da respingere.
Alberto Ferrari, 19-02-2012 12:19
Sono per l'abolizione del "valore legale" del titolo di studio per varie ragioni pratiche. In un mondo in cui nostri cervelli emigrano in altri paesi più accoglienti altri cervelli immigrano nel nostro e trovano un paese ostile. In questo modo noi accettiamo solo cervelli che raccolgono pomodori scartando le intelligenze più preparate di paesi meno sviluppati economicamente spesso perchè non riconosciamo il "valore legale" dei loro titoli di studio! ed esportiamo cervelli ben preparati. RISULTATO più furbi stupidi nei posti qualificati e meno intelligenze sfruttate per la ricchezza di tutti noi. vi sono anche altre ragioni più sottili ma la nostra italica grossolanità è più che sufficiente. Un titolo di studio deve contare qualcosa per chi valuta non contare assolutamente a prescindere. Saluti ... ecco il mio contributo.
Antonio Campo, 07-05-2012 07:07
Mi pare che a disprezzare la laurea siano coloro che non sono riusciti a dare neanche un esame, chiaramente per una minore capacità intellettiva. E temono che le persone con più capacità freghino loro il posto che parenti, amici e conoscenti ben oleati hanno promesso. Quasi la metà dei laureati italiani hanno lavorato durante il percorso di studi. Hanno fatto i camerieri, i baby sitter, gli operai, gli operatori di call center. Perché le tasse universitarie sono alte e poche famiglie se le possono permettere. Ecco che ci si fa in quattro per poter studiare. Intanto che i meno dotati fanno gli stessi lavori (sempre se oltre ad essere meno intelligenti non sono anche meno volenterosi....)spendendo quei soldi in telefonini, sigarette, pizze e serate in discoteca. Un laureato si è fatto valutare decine di volte da presone preparatissime, non è stato assunto come commesso per il suo sorriso smagliante. Ha passato anni sui libri a imparare formule, storia, filosofia, tecniche, lingue. Pagando profumatamente con soldi spesso da lui stesso sudati e finiti nelle tasche pubbliche ad arricchire le politiche sociali a favore dell'inserimento lavorativo di quelli con la terza media.... Di concorsi con titoli ce ne sono ormai ben pochi. Invece io spero che si passi a una maggiore valutazione della laurea. Tanto da renderla obbligatoria per l'inserimento lavorativo e poter così essere alla pari intellettualmente degli altri paesi europei. Laurea triennale obbligatoria per qualsiasi lavoro impiegatizio, anche solo di reception o di centralino. Vedremo quante signorine allegramente inginocchiate che prima facevano le segretarie dovranno tornare a inginocchiarsi per raccogliere pomodori!
Marta, 05-07-2015 09:05

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