Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, un caso ancora aperto

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin furono uccisi a Mogadiscio diciotto anni fa, il 20 marzo del 1994, mentre cercavano di fare luce su un fitto traffico illecito di armi e rifiuti che, si sospetta, coinvolgeva anche rappresentanti del governo italiano. A oggi, tuttavia, non è ancora emersa una verità giudiziaria definitiva.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, un caso ancora aperto
Sono passati diciotto anni dall’assassinio della giornalista romana Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin, l’operatore con cui si trovava a Mogadiscio, in Somalia, proprio nei giorni in cui era al suo apice il conflitto tribale che ha insanguinato il Paese africano sin dal 1986 e che, dal 1992, ha visto coinvolte anche le truppe dell’ONU, intervenute nell’ambito delle operazioni Unosom I e Unosom II, terminate nel 1995. Dal quel 20 marzo 1994, si sono susseguite numerose vicende giudiziarie, militari e politiche, nessuna delle quali ha però avuto la capacità di fare realmente luce sul caso. A dispetto della discutibile decisione di non eseguire alcuna autopsia sulla salma della giornalista, rientrata in Italia dopo l’uccisione ed esaminata solo superficialmente, sono state due, nel 1996 e nel 2004, le riesumazioni e solo dopo due anni dalla morte sono stati nominati consulenti medici e balistici. La conclusione ormai accertata è che la causa del decesso è stata “un colpo d’arma da fuoco a proiettile unico esploso a contatto con il capo”. Un’esecuzione, quindi. A oggi, tuttavia, l’unico colpevole che la giustizia è riuscita a individuare è Omar Hashi Assan, presunto capo del commando che uccise i due giornalisti. La sua condanna definitiva però, formulata nel 2006, si fonda sulla testimonianza di Ali Rage Ahmed, sparito subito dopo aver accusato Assan e ricomparso nel 2002 solo per dichiarare che le sue imputazioni erano mendaci e fornite dietro pagamento, gettando nuovamente un’ombra sul caso. Proprio in questi giorni, si sta tenendo il processo per calunnia ai danni di Ahmed; nel corso dell’aggiornamento del 20 marzo, a vent’anni esatti dal duplice omicidio, l’ennesima stranezza: le porte dell’aula della seconda sezione, dove è stato chiamato a deporre il direttore dell’AISE (ex SISMI) Generale Santini, erano chiuse sia per i giornalisti che per il pubblico. Depistaggi e omissioni hanno sempre caratterizzato il percorso giudiziario del caso Alpi-Hrovatin, a partire dalla Commissione parlamentare d’inchiesta istituita nel 2003 e presieduta da Carlo Taormina, che ha lavorato per circa tre anni concludendo il proprio incarico nel 2006 e producendo tre diversi rapporti – uno di maggioranza, uno di minoranza e uno presentato dal gruppo dei Verdi – senza in realtà aggiungere nulla e, anzi, fornendo una versione ritenuta da molti, oltre che infondata, anche offensiva: “Si trattò di un tentativo di sequestro finito male; nessun mistero, dunque, Ilaria e Miran non stavano conducendo alcuna indagine scottante. A Bosaso erano andati in vacanza, al mare”. Eppure, i tasselli del mosaico in possesso dei giudici, dei giornalisti, dei familiari e di tutti coloro che si sono cimentati e si stanno ancora oggi cimentando nella ricostruzione dei fatti non sono pochi, dall’audizione del procuratore di Reggio Calabria Francesco Neri al dispaccio dell’Ansa rinvenuto recentemente, che lo scorso anno ha spinto la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti a riaprire il caso. Al di là di prove e testimonianze, manca probabilmente un elemento fondamentale, ovvero la volontà di chiarire un quadro ben più ampio dell’attentato del 20 marzo: una trama di illeciti che implicavano coinvolgimenti pesanti sui quali Ilaria Alpi stava iniziando a fare luce. Il suo viaggio era infatti partito da Bosaso, nella Somalia settentrionale, dove stava indagando su un traffico di armi e di rifiuti di considerevole portata, come emerge dagli stralci delle conversazioni telefoniche con il suo caporedattore di allora, Massimo Loche. Eppure un’altra importante indicazione è stata fornita anche da Wikileaks, che ha recentemente riportato testimonianze riguardanti Faduma Adid, figlia del generale Mohammed Farah Aidid, ‘signore della guerra’ assassinato nel 1996. Nel testo pubblicato, il quadro dipinto raffigura un’intricata rete di relazioni fra il Governo italiano e mercenari e terroristi del Corno d’Africa e una strategia di fondo, da parte del nostro Paese, mirata a mantenere un serrato controllo sulla Somalia. Come conseguenza di questa politica, lo scenario prospettato presenta un governo somalo pronto ad abbandonare la partnership con l’Italia e in generale l’Europa, per avvicinarsi agli Stati Uniti. Ecco dunque quello che manca: una visione d’insieme, una base su cui collocare tutti i pezzi del puzzle per ottenere una versione dei fatti chiara, contestualizzata e plausibile. Come per molti ‘misteri italiani’, anche quello dell’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin non può essere archiviato dal punto di vista giudiziario ma è già ben delineato da quello storico. Naturalmente, è questa una ‘verità fantasma’ che non può essere sufficiente a rendere giustizia a chi ha sacrificato la propria vita per farla emergere e a chi, in questi diciotto anni, ha profuso grandi sforzi per trasformare congetture e supposizioni in sentenze, finalmente e una volta per tutte, nero su bianco.

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