La lunga marcia verso la legittima insolvenza del debito pubblico

I fondi pubblici sono stati presi di mira dal rifinanziamento delle banche d'affari responsabili della crisi. Intanto, la mobilitazione dei cittadini cresce, e dopo il caso dei referendum per l'acqua, è necessario pretendere il rispetto della volontà popolare, disattesa dagli stessi governanti che hanno promosso l'indebitamento nazionale.

La lunga marcia verso la legittima insolvenza del debito pubblico
Nel 1989 a Berlino cadeva quel muro che, più di ogni altra frontiera, raffigurava la “cortina di ferro” che divideva il mondo occidentale da quello comunista. L'implosione dell'Unione Sovietica, che decretava il fallimento del più grande laboratorio di comunismo reale, non lasciò quasi alcun rimpianto in patria, ma ebbe rapide ripercussioni in Occidente, con l'immediata messa in discussione delle conquiste sociali e sindacali delle socialdemocrazie europee e quelle Americane del New Deal di Roosevelt e Keynes. Senza voler sminuire le battaglie combattute da sindacati e lavoratori occidentali, bisognerebbe riconoscere l'enorme debito che le nostre classi medie hanno contratto con gli sfortunati compagni d'oltre cortina, per l'azione intimidatoria da loro esercitata sui grandi capitalisti occidentali, costretti per quasi un cinquantennio ad una benevola redistribuzione della ricchezza. Il Neo-Conservatorismo che ha preso l'avvio da quell'evento berlinese, in questi anni ha rispolverato tutti gli apparati coattivi del capitalismo ottocentesco, tra cui anche i mille obblighi e balzelli che impastoiano i cittadini meno abbienti, mentre l'accezione lessicale originaria del termine 'liberista' con cui questi signori si fregiano, viene riservata esclusivamente al Capitale, ai suoi detentori ed ai grandi sacerdoti che lo amministrano. Non bisogna stupirsi quindi, se per spostare un lavandino nel bagno di casa ad un comune mortale occorrano più carte bollate di quelle che servono all'Enel per realizzare una diga sul Rio della Plata (e sommergere intere vallate con campi e villaggi di migliaia di nativi). Non è una casualità paradossale, ma pura intenzionalità. Dal 1989 ad oggi, in primo luogo si è perseguito l'indebitamento degli Stati nazionali, mediante il mantenimento al potere di una classe dirigente di 'cicale' corrotte e gaudenti, poi, con la crisi dei titoli spazzatura del 2008 si è completato il saccheggio dei fondi pubblici, definitivamente dissanguati dal rifinanziamento delle banche d'affari responsabili della crisi (1000 miliardi di euro in Europa dalla BCE al 1% di tasso d'interesse, solo negli ultimi sei mesi). A questo punto ai grandi oligarchi del sistema economico mondiale non restava altro da fare che presentare la cambiale all'incasso, creando instabilità finanziaria sui titoli di Stato ed usando la leva dello spread per gettare nel panico i nostri modestissimi governanti. In Italia è stato messo alla porta Berlusconi, inadatto al nuovo corso, malgrado l'ottimo servizio svolto nell'opera di moltiplicazione del Debito Pubblico italiano, inaugurata dal suo padrino Craxi ma perseguita anche dai governi di centro-sinistra, nei loro brevi interludi. Al suo posto è stato messo il bocconiano Monti, liberista di indiscussa fedeltà al Capitale, ed affermato tecnocrate europeo. Dal giorno del suo insediamento, non un solo minuto dell'azione di governo è stato dedicato ai pur gravi problemi di Istruzione, Ricerca, Agricoltura o Sanità. Mai, l'austero Tecno-Presidente, si è lasciato distogliere dalla propria missione prioritaria della Riscossione del Debito. Gli italiani sono stati ossessionati, redarguiti e colpevolizzati dai media pubblici e padronali, mentre nessuna risposta è stata ancora data ai pochi che invocano un esame pubblico e trasparente sull'origine del Debito, chiedendo conto, tra l'altro, dell'iniqua difformità tra gli interessi irrisori che le banche pagano alle casse pubbliche della BCE per i colossali prestiti ricevuti e quelli invece usurari che gli Stati nazionali pagano alle medesime banche per BOT e CCT. Interessi che nell'andata e ritorno fruttano agli azionisti delle banche un profitto del 3–4% su cifre a 12 zeri, a scapito dei cittadini europei, magicamente declassati dai tecnocrati di Bruxelles, da prestatori cornuti a debitori mazziati. Purtroppo la storia ci ha insegnato che da queste fasi di restaurazione delle forze conservatrici non ci si può attendere nulla di buono. L'abbandono di ogni politica di solidarietà sociale per perseguire solo la competizione e la prevaricazione del più forte, ha sempre prodotto guerre, morte e distruzione. L'attecchimento ed il rapido sviluppo di partiti fascisti e xenofobi in tutto il pianeta, le relazioni internazionali sempre più tese e dispotiche, la crescente indifferenza per i grandi disastri ambientali. Tutti campanelli d'allarme che squillano, ma cui pochi prestano la dovuta attenzione. La mobilitazione di donne e uomini di 'buona volontà' cresce, anche se a ritmi inadeguati alla gravità del momento, eppure alcune iniziative popolari hanno cominciato in Italia a lasciare il segno. Una di queste è stata la tenuta dei referendum promossi dai Forum dell'Acqua Bene Comune, il cui netto successo è stato un'inequivocabile indicazione di ciò che il Popolo italiano pensa delle privatizzazioni dei beni collettivi e più in generale dello smantellamento degli Stati nazionali perseguito dagli oligarchi del capitalismo internazionale. Ora bisogna continuare su quella strada, cominciando intanto a pretendere il rispetto della volontà popolare, disattesa dagli stessi governanti che hanno promosso l'indebitamento nazionale, a questo scopo sono tornati in attività i Comitati locali dell'Acqua Bene Comune con la campagna di 'Obbedienza Civile' che oltre a pretendere la restituzione di quanto illegalmente pagato ai gestori idrici dai Referendum ad oggi, ha cominciato nelle scorse settimane una campagna nazionale di autoriduzione delle bollette. Azione quest'ultima di grande importanza sperimentale, perché le prossime mobilitazioni di resistenza civile all'intollerabile oppressione capitalista, dovranno essere combattute sul terreno della legittima insolvenza del Debito pubblico, ed una buona palestra sarebbe quella offerta ai movimenti, dal decaduto diritto alla Remunerazione del capitale per le aziende dei servizi idrici e dalla sua sacrosanta cancellazione.

Commenti

I segnali che il governo tecnico italiano sia solo un apparato molto più deciso e competente di quello precedente nella restaurazione darwiniana dell'economia diventano sempre più frequenti. Ogni conteggio e analisi viene fatto solo sulla base di dati acquisiti e non di effetti e prospettive future. L'esempio macroscopico è dato dalla valutazione governativa del numero degli esondati, i lavoratori cioè che per effetto del prolungamento dell'età pensionabile si vedono posticipare, senza più il reddito da lavoro dal quale si erano licenziati o fatti uscire anticipatamente, di due-tre anni la fruizione della pensione. Non so se le lacrime della ministra nell'occasione delle comunicazioni sui provvedimenti in materia pensionistica fossero per loro, ma a darle credito di buona fede e sensibilità femminile, viene da pensare proprio di sì tanto più che un minimo di accorta previsione in termini reali portava a decuplicare il numero che ora ci viene sfacciatamente dichiarato. Altro esempio di non poco conto è quello della invocata crescita, che stenta a decollare se non in settori strettamente collegati alla produzione di energia.In questi settori il mondo capitalistico investe perchè...è aumentato il prezzo, e quindi si è ristrutturato un sopraprofitto anche a vantaggio delle imposte indirette a carico di tutti e a beneficio dello Stato. Lo Stato padrone non lo Stato della redistribuzione e men che meno della giustizia sociale e della responsabilità sociale della libera impresa. E' ora che la Società Civile, visto che il mondo cd...occidentale si è ben guardato dal far tesoro dell'esperienza e degli apporti al contenimento dell'ingordigia capitalistica dati dai lavoratori dell'Est comunista, riedifichi su nuove basi e con nuovi presidi quel muro non più fatto di anacronistici mattoni ma di trasversali e cogenti regole che impediscano la sopraffazione e l'approfittamento. L'impegno dovrà inevitabilmente coinvolgere l'Europa con l'augurabile e prossimo cambio di vento politico in Germania e Francia. Ma è chiaro che non ci sono altre strade civilmente e democraticamente percorribili per un possibile progresso nella convivenza civile.
Franco, 13-04-2012 02:13
interessanti osservazioni, in particolare sulla economia darwiniana, che immagino si riferisca all'ipotesi neo-cons del mercato visto come una giungla primordiale, nella quale solo i più adatti sopravvivono. Peccato però che, al contrario di quanto accada in ambito naturale, nel sistema capitalistico sono i peggiori a sopravvivere, quelli che non hanno alcun riguardo per l'habitat (ad eccezione naturalmente dei parchi e le tenute di loro proprietà) e la loro vittoria definitiva avrebbe il medesimo effetto di quei virus troppo aggressivi che sopprimono l'ospite che li mantiene in vita.
Andrea Marciani, 15-04-2012 07:15
Centri per l'Impiego: non potremmo farne a meno? Accogliendo anche in questo post l'invito che il ministro Giarda ha rivolto a chi invoca tagli immediati della spesa pubblica a dire "quali servizi pubblici vorrebbero smontare e trasferire al mercato", vengono in mente i Centri per l'Impiego pubblici. Fino a una decina di anni fa la mediazione del lavoro era un monopolio pubblico. Un anno di svolta fu il 1997 grazie anche al forte impulso dato in proposito dalla Corte di Giustizia Europea che con la sentenza Job Centre dichiarò il monopolio pubblico del collocamento italiano incompatibile con il diritto comunitario della concorrenza. Tra il 1997 e il 2003 (riforma Biagi) si passò da un sistema caratterizzato da struttura statale e divieto di mediazione privata al decentramento della struttura (vennero attribuite alle Regioni le funzioni del mercato del lavoro, le quali le trasferirono alle Province) e all'apertura ai privati dell'attività di mediazione. Oggi i Centri per l'Impiego, ex uffici di collocamento, svolgono un ruolo minimo nella mediazione tra la domanda e l'offerta di lavoro in Italia. Nel 2007 su 100 disoccupati che avevano trovato un lavoro nei 12 mesi precedenti la rilevazione, soltanto 3,7 di essi indicavano che il buon risultato fosse dovuto ad un Centro per l'Impiego. Nel Regno Unito, dove la spesa complessiva per le politiche del lavoro è molto simile a quella italiana, questo tasso è doppio e in Germania è pari al 13%. Nonostante il servizio che producono sia molto limitato, i Centri per l'Impiego continuano ad occupare circa 10.000 dipendenti (9.989 per la precisione nel 2007). Visto che il settore è già stato liberalizzato, perché mantenere la gestione diretta statale? Una possibilità sarebbe quella proposta in questo articolo de La Voce (da cui proviene anche la tabella precedente): il servizio di intermediazione tra domanda e offerta di lavoro, analogamente a quanto succede nel Regno Unito, verrebbe completamente esternalizzato dai Centri per l'impiego ai numerosi fornitori privati, sulla base di gare di appalto o convenzioni. Una seconda possibilità, più radicale, è la seguente: perché non lasciare che l'attività di mediazione del lavoro non venga svolta unicamente dal mercato? L'unica remora ad una mediazione del lavoro esclusivamente di mercato è costituita dal timore che le agenzie per il lavoro private non siano incentivate alla collocazione dei disoccupati più svantaggiati o meno qualificati. In realtà questo sembra un timore legato più alla diffidenza verso il mercato. Si pensi a come in altri processi di intermediazione non si presenti un simile problema di discriminazione di ciò che viene mediato. E' utile pensare al settore immobiliare: lì non si verifica che le case "svantaggiate" (le case meno appetibili) non trovino un mediatore disposto ad occuparsene. Semmai le agenzie immobiliare possono scegliere un particolare segmento di mercato (case di prestigio, case di campagna, case di periferia) e di specializzarsi in quello. Finché però c'è la domanda di case anche poco appetibili, al mediatore non manca certo l'incentivo ad occuparsene. Attraverso questo paragone, che a prima vista può sembrare azzardato, riusciamo ad arrivare a quello che è il nocciolo della questione: finché da parte dei datori di lavoro c'è domanda di un lavoratore "svantaggiato" ci sarà una persona interessata a mediarlo. Se lo Stato vuole sostenere questa tipologia di lavoratori (e il paradosso italiano, emblematico di un Lavoro in crisi, è che la categoria di "svantaggiati" comprende anche donne, giovani, anziani e poco qualificati: ma chi resta?) forse farebbe meglio a distinguere nettamente l'intervento pubblico nella mediazione del lavoro dall'intervento pubblico a sostegno della domanda del lavoro "svantaggiato". Piuttosto lo Stato potrebbe destinare un parte delle risorse che servono per pagare ogni anno i 10.000 dipendenti nei Centri per l'Impiego per sostenere i datori di lavoro che decidano di occupare un lavoratore "svantaggiato". Oggi invece si fa fatica a pensare che i Centri per l'Impiego pubblico possano fornire ai lavoratori "svantaggiati" un collocamento occupazionale migliore e con maggiore probabilità di quanto non avverrebbe in un sistema di sole agenzie per il lavoro private. Al contrario continuiamo a tenere aperti dei centri per l'impiego pubblici poco efficienti e che ricoprono un ruolo minimo nella collocamento del lavoro. Il Titanic Italia affonda e i politici ballano Sono passati cento anni dalla tragedia del Titanic e l'Italia si trova più o meno nella stessa situazione. Certo, forse la metafora è un po' forte, ma permette di rendere bene l'idea di quanto la situazione economica sia complicata. Lo spread italiano è tornato ai livelli di guardia ed ha superato i 400 punti rispetto al bund tedesco. La Spagna si ritrova nella stessa situazione, con il differenziale che ha raggiunto ieri i 430 punti. Tutta colpa degli hedge fund o come molti giornalisti amano definirli in senso spregiativo dei "fondi locusta"? Tutta colpa delle della riapertura delle vendite allo scoperto? O forse la colpa ricade sulla Spagna, come il premier Monti ha fatto intendere? No, tutta colpa dello Stato e della sua pesantezza. Proprio ieri, il Ministro Giarda su "La Stampa" affermava che non erano necessari tagli alla spesa pubblica. Ma è davvero così? È possibile che in Gran Bretagna il premier Cameron stia effettuando duri tagli per cercare di superare la crisi? La pressione fiscale italiana ha ormai superato il 53 per cento in termini reali sul prodotto interno lordo, tenendo conto che l'Istat contabilizza anche l'economia in nero. Un livello insopportabile per famiglie ed imprese e per tutto il tessuto economico sociale italiano. Questo livello impressionante di pressione fiscale è dovuto alla "spese pazze" dello Stato, che non è in grado di fare delle riforme serie per ridurre la spesa stessa. Liberalizzazioni, riforma del lavoro e mancati tagli della spesa sono le tre principali preoccupazioni dei mercati per quanto riguarda l'Italia. La pressione è forte su tutti gli Stati deboli dell'Eurozona e anche la Spagna si trova nell'occhio del ciclone. In questo caso le "spese pazze" dello Stato non sono un fatto storico come in Italia, dato che il dato di debito su PIL è ancora sotto il 70 per cento, 50 punti inferiore a quello italiano. Nel caso spagnolo le maggiori preoccupazioni derivano dal settore delle cajas che si ritrovano attivi nel portafoglio dal valore molto dubbio. Queste casse di risparmio dovranno continuare a svalutare. Fino ad ora il costo per il Governo spagnolo è stato molto limitato, perché vi era la copertura di un fondo settoriale. Ma i soldi di questo fondo sono finiti e a breve termine lo Stato dovrà intervenire per decine di miliardi di euro. Vi è inoltre la preoccupazione che i tagli di 27 miliardi di euro previsti dalla manovra di Rajoy non siano sufficienti a coprire il buco derivante dal calo dell'economia. Una recessione, che secondo le ultime stime, sarà molto più dura in Italia che in Spagna. La colpa non è della Spagna, dunque, perché anche lo spread italiano è a livelli elevatissimi. La sfiducia si respira in tutta la zona Euro e la recessione è già arrivata in Italia (non ancora in Spagna). Colpa allora delle "locuste"? Gli hedge fund investono laddove vedono possibilità di guadagno. Possono avere benefici sia quando lo spread sale sia quando scende. Dipende tutto dalla fiducia che hanno in un determinato paese o zona. In questo momento l'Italia, la Spagna e la Zona Euro in generale non hanno la fiducia del mercato. Come dargli torto? L'intervento della BCE con l'immissione di 1000 miliardi di euro è servito nel breve termine (come già sottolineato più volte su questo blog). Le banche si sono riempite di debito statale con i soldi prestati dalla BCE, facendo cadere in breve tempo i tassi d'interesse sul debito. Ma i sorrisi sono durati ben poco. I politici italiani in poco meno di due mesi pensavano di avere già salvato il Titanic italiano. E avevano cominciato a ballare, indebolendo le poche liberalizzazioni proposte dal Governo Monti. Risultato? Ora la sfiducia nel settore bancario è tornata a livelli di guardia perché in generale i mercati non hanno fiducia che i diversi Paesi deboli dell'Euro siano in grado di ripagare i propri debiti. Tutta colpa della Spagna o delle "locuste"? La colpa è di quella classe politica che continua a ballare a bordo del Titanic Italia.
pinco pallo, 15-04-2012 11:15
Tagliare la spesa per tagliare le tasse In un'intervista pubblicata oggi sulla Stampa e già commentata in questo blog da Giannino, il ministro Giarda ha distinto, ai fini della revisione della spesa pubblica, l'obiettivo di rendere efficiente l'apparato pubblico da quello di ridurne i compiti e le funzioni, per assegnarli al mercato. Esplicitando e motivando l'intenzione del governo a mantenersi fermo, almeno per ora, sul primo scopo, ha conseguentemente dichiarato che la riduzione della spesa non potrà accompagnarsi a una riduzione delle tasse, almeno finché non siano individuabili servizi che possono essere destinati al privato senza conseguenze "negative". Accogliendo quindi l'invito che il ministro ha rivolto a chi invoca tagli immediati a dire "quali servizi pubblici vorrebbero smontare e trasferire al mercato", vengono in mente, tra gli altri, i servizi pubblici locali, una delle voci di maggior spesa degli enti locali. L'attuale governo è già intervenuto a correggere gli obiettivi "politici" del referendum sui servizi pubblici locali, ribadendo che la regola per l'assegnazione di tali servizi è la gara ad evidenza pubblica e che la gestione in house, oltre a ricadere nei calcoli per il rispetto del patto di stabilità, nei comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti va sottoposta a parere dell'Antitrust. Gli enti locali sono ora impegnati in un'operazione di ricognizione dell'assetto dei SPL, con possibilità di intervento sostitutivo dello Stato, che li metta in linea con l'obiettivo del governo di rendere efficiente, in primo luogo aprendola alla concorrenza, la gestione di tali servizi, salvo che gli enti medesimi, a seguito di un procedimento di istruttoria, non dimostrino l'impossibilità di rispondere ai bisogni della comunità tramite il ricorso al mercato. Queste previsioni, che rappresentano indubbiamente una risposta chiara negli obiettivi all'esito referendario, sono tuttavia insoddisfacenti, come Lucia Quaglino ha spiegato in questo blog, a contribuire a quella significativa riduzione della spesa pubblica che potrebbe portare a una riduzione della pressione fiscale, alterando il confine attuale tra servizi pubblici e privati, e non semplicemente cercando di razionalizzare e ottimizzare il servizio pubblico, come questo governo pare si stia limitando a fare, secondo le dichiarazioni di Giarda. Occorrerebbe piuttosto un intervento più energico a favore delle procedure ad evidenza pubblica di affidamento dei SPL, a partire da una semplice correzione legislativa che renda vincolante, e non meramente obbligatorio, il parere dell'Antitrust sul conferimento in house del servizio. No, no e no a Giarda e all'eccidio fiscale! Come purtroppo c'era da temere %u2013 per me era scontato, l'ho piùvolte scritto %u2013 l'intervista di stamane alla Stampa di Piero Giarda conferma che la spending review non darà un euro per meno tasse con meno spesa. A parte le gravi imprecisioni a fondamento del ragionamento di Giarda %u2013 la spesa pubblica non è affatto "sostanzialmente" stabilizzata da anni, come esordisce, mentre è vero che un giro di vite al suo tasso di accrescimento è stato dato da Tremonti assai più che dal salva-Italia del governo attuale %u2013 quel che conta è la sostanza. Il governo attuale non crede affatto alla necessità di un turaround serio del perimetro pubblico e della spesa corrente, e non crede affatto che l'abbassamento della pressione fiscale record sull'Italia che lavora e produce e paga sia la "vera" cura nel breve per ridare un'orizzonte di crescita all'Italia. Il governo prla di manutenzione della spesa pubblica, quando serve impugnare %u2013 con inteligenza e sapendo dove incidere %u2013 ascia e bisturi. Temo le illusioni cala-spread di Monti e dei suoi siano finite. Il mondo si è accorto che sono le banche italiane a ricomprare i titoli pubblici. E a questo ritmo di recessione e di ripresa del ballo europeo ci aspetta molto probabilmente un'altra manovra tassaiola entro fine anno. E' il caso di tornare ai fondamentali di che cosa sia e a che cosa debba servire un moderno ed equilibrato sistema fiscale. Per dire, ripetere urlare tre volte no, a questa errata mistificazione che spaccia per moderazione e prudenza "tecnica" la conferma di un errore ventennale ed esiziale della politica di bilancio italiana. Con il disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, il governo Monti ha proposto una nuova raffica di aggravi d'imposta e contributivi. L'aumento dell'1,4% dei contributi sul lavoro a tempo determinato, in crescita asintotica verso l'equiparazione della contribuzione a tempo indeterminato, secondo l'errato criterio che occorra rendere più caro il lavoro a tempo, invece che meno costoso quello indeterminato. Poi la nuova tassa sui 75 milioni di decolli annuali nel nostro Paese, una nuova sberla a turismo e vettori aerei. Ancora, l'aggravio d'imposta alle flotte aziendali, l'ideale per colpire insieme settore dell'auto in crisi nera e generalità delle imprese, in tensione crescente per credit crunch e calo di ordini da recessione. Poi, l'abbattimento di 10 punti di deduzione per i proprietari immobiliari che non adottassero il regime di cedolare secca sugli affitti. Infine,ed è sfuggita ai più, la triplicazione della tassa sui licenziamenti, che sale da un mese e mezzo di retribuzione lorda da pagare all'Inps da parte delle imprese, a quattro mesi e mezzo! E' singolare, la strada fiscale intrapresa in quattro mesi dal governo Monti. Persegue contestualmente l'aggravio delle imposte dirette, attraverso il via libera alle addizionali locali. Quello delle imposte indirette, già deliberato per il prossimo mese di ottobre. Quello delle imposte patrimoniali, appesantite con Imu e prelievi su conti titoli. Quello dei contributi. A fronte dell'impegno assunto ad azzerare il deficit pubblico nel 2013 mentre gli eurospread risalgono e Francia e Spagna potrebbero dare nuove spinte verso l'alto, e mentre l'effetto delle LTRO operate da Bce appare per quello che è, aver opportunamente comprato altro tempo con liquidità che non sana l'europroblema, e mentre dall'Economist al Wall Street Journal tutti i più seri ammoniscono l'euroarea a non illudersi, mentre avvine tutto questo il "prendere dove si può" fiscale del governo Monti può costituire apparentemente una manifestazione di rigore. Non lo è, invece. E' la classica manifestazione da sindrome di impotenza nel dover mutare rapidamente indirizzo alle politiche economiche. Il "non possumus" opposto a "meno spesa,m eno tasse" dai vertici delle tecnocrazie amministrative %u2013 ragioneria generale dello Stato, direttori generali e capi di gabinetto dei ministeri %u2013 è diventato il carattere dominante della politica di bilancio italiana, ovviamente ancor più forte nei confronti di chi non ha alle sue spalle un mandato elettorale. Ed è ovviamente conservativo dell'indirizzo ventennale sin qui seguito dai tecnici vent'anni fa, poi da destra, poi da sinistra, e infine dai tecnici ancora: inseguire la spesa pubblica mai fermata %u2013 non lo è neppure oggi con Monti %u2013 attraverso le più diverse forme di prelievo possibile. Quel che impressiona, nel fiorire settimanale di nuove tasse e aggravi d'imposta, è l'acquiescienza e il silenzio dell'accademia italiana di scienza delle finanze. Va detto senza che si manchi di rispetto ad alcuno. Non è albagia liberista, rispetto a keynesiani e sraffiani dominanti. Ma non è rincuorante vedere un grande filone di studi italiano ridursi da Francesco Ferrara e Vilfredo Pareto al rassegnato encomio statolatrico, fatto proprio in nome del favor fisci anche da una corriva e illiberale giurisprudenza della Suprema Corte e di quella Costituzionale. Va ricordato che tre sono i princìpi fondamentali ai quali dovrebbe restare ancorato un moderno sistema del prelievo, affinché sia efficiente. Laddove l'efficienza non consiste nell'assicurare "comunque" allo Stato ciò di cui esosamente abbisogna. Bensì è quella economica, cioè un equilibrato dosaggio tra disincentivi e incentivi agli attori economici che non ne pregiudichi troppo crescita e reddito, consumi e investimenti. I tre princìpi sono quelli inerenti al cosiddetto sacrificio di utilità. Dove l'utilità è quella marginale del reddito, al suo crescere. Il primo principio è quello del sacrificio di utilità proporzionale. Basato sul distogliere a ciascuno una medesima utilità, esso è stato negato dalle curve di utilità marginale del reddito sostenute da keynesiani e marxisti, secondo i quali esse decrescono al crescere del reddito. Di qui il secondo principio, quello del sacrificio di utilità progressivo. In questo secondo caso, il fisco prende da ciascuno non quantità eguali, ma "proporzionate" alla sua valutazione di ciò che per redditi più elevati un maggior onere fiscale comporta, rispetto ai redditi più bassi. Il terzo principio, quello del sacrificio minimo collettivo, nasce per derivazione dal secondo, è propugnato da chi è convinto della maggior efficienza nel distogliere il più che allo Stato serve da coloro che più hanno. Nella storia evolutiva del fisco moderno, al primo principio si lega la flat tax; al secondo aliquote fortemente progressive sul reddito; al terzo aliquote ancor più elevate più imposte patrimoniali sui ricchi. Negli ultimi vent'anni in Italia, l'atrofizzazione della critica tributaria alle pretese crescenti di uno Stato fuori controllo ha prodotto però due conseguenze paradossali. La prima è che così procedendo l'Italia si è tagliata fuori dalle evoluzioni contemporanee dei tre vecchi princìpi tradizionali. L'emergere di sempre più vae insieme "problematici" sti cespiti imponibili nelle economie terziarie contemporanee %u2013 caratterizzate da altissima mobilità transnazionale di capitale, investimenti, tecnologia e (meno) lavoro che si allocano alla ricerca di maggior redditività %u2013 al fine di ottimizzare gettito e compliance si rivela più compatibile con flat tax rese "progressive" da deduzioni e detrazioni a tal scopo finalizzate, che coi vecchi sistemi beveridgiani ad aliquote iperprogressive e a consistente prelievo patrimoniale su impieghi e immobilizzi. Il secondo paradosso è che in Italia la quantità disorganica e incrementale del "prendere dove si può" ha finito per falsare anche i tre vecchi princìp stessi. Per le persone fisiche, l'inefficienza tributaria e amministrativa ha prodotto, grazie alla progressività elevata delle aliquote italiane, la più bassa percentuale di redditi elevati risultante alla nostra anagrafe tributaria, rispetto alla media dei Paesi "davvero avanzati". Per le persone giuridiche, il tax rate reale è pazzoticamente inversamente proporzionale al loro perimetro e finanziarizzazione, per effetto del compromesso tra legislatore e grandi gruppi banco-industriali. E quanto a sacrificio collettivo, un sistema come quello italiano lo comporta non minimo ma massimo per tutti: famiglie a basso reddito, ceto medio che evapora, piccola e piccolissima impresa, lavoratori autonomi e professionisti, tasso demografico insostenibile, multinazionali in fuga. Il prezzo è sempre più amaro, di un sistema fiscale dettato dalla disperazione più che dalla lungimiranza. Il sogno è quello di un'Italia legale e lagalitaria che si decida a riempire le piazze, scandendo "ora basta". Senza rompere alcuna vetrina, né fermare il traffico, e senza bandiere di partito. L'unico partito che m'interessa si ciama PIl, in questa Italia senza priorità. O meglio, di priorità pubbliche che sono solo legnate a lavoro e impresa. Riforma del lavoro: un passo in avanti e due indietro %u2013 di Emmanuele Massagli e Michele Tiraboschi In Parlamento e nelle piazze già si preannuncia battaglia. La scelta di un disegno di legge (e non, come in un primo tempo ipotizzato, di un decreto d'urgenza) apre indubbiamente una fase turbolenta che, nel serrato confronto tra esecutivo, partiti politici e parti sociali, potrebbe dare luogo anche a un imprevedibile cortocircuito. Fatto sta che la riforma del mercato del lavoro pare essere ormai delineata. Il documento reso noto dal Ministro Fornero segna un confine di profonda discontinuità con le politiche del lavoro dell'ultimo decennio. Sussidiarietà, differenziazione e prossimità sono state le parole chiave della riforma Biagi. L'impianto di riforma reso noto alle parti sociali e alla pubblica opinione può invece essere letto nell'ottica del centralismo regolatorio di matrice statuale, che vede con diffidenza non solo la concertazione e i corpi intermedi, ma anche i comportamenti dei privati cittadini, lavoratori e imprese, la cui condotta viene fortemente limitata in termini dirigisti e sanzionatori. In antitesi con le politiche del passato è anche la ricentralizzazione delle politiche per il lavoro accennata nel documento del Governo e già fortemente criticata dalle Regioni che hanno le principali competenze in materia. Certamente il nuovo esecutivo pare molto vicino a modificare la norma simbolo della conservazione sulle tematiche del lavoro, e cioè l'articolo 18. Con una soluzione tecnica discussa e discutibile che, non a caso, già lascia presagire spazi per un maggiore contenzioso. Vero è che, apparentemente, si limita lo spazio di azione del giudice almeno nei licenziamenti economici. La nuova versione del comma 1 dell'articolo 18, laddove si prevede il diritto alla reintegrazione, consegna tuttavia un ampio potere al giudice di valutare la qualificazione datoriale del licenziamento estesa dal licenziamento discriminatorio al licenziamento per motivo illecito ex articolo 1345 del Codice Civile. Previsione questa che permette ai nostri giudici di sindacare la qualificazione del licenziamento fatta dal datore di lavoro rendendo incerte le scelte aziendali. Sta di fatto che il prezzo di questa indubbia innovazione, nel segnare uno scarto di non poco conto rispetto a una stagione di veti ed eccesso di concertazione, scarica tuttavia il peso dello "scambio" proposto dal Governo sulla flessibilità in entrata, che risulta ora pesantemente ridimensionata rispetto a come era stata regolata con la Legge Biagi. Non si realizza in effetti alcuno sforzo per discernere la flessibilità buona da quella cattiva e dunque il passo in avanti sui licenziamenti viene a segnare un ritorno al passato sulle flessibilità di un mercato del lavoro disegnato a immagine e somiglianza della vecchia impresa fordista. La vera criticità della proposta di riforma sta, in effetti, nel modello economico ed organizzativo preso a riferimento. Se nel 2003 si era provato a superare un modello regolatorio standardizzato di tipo industrialista, proprio della vecchia economia, si accredita ora l'equazione flessibilità = precarietà che riconduce le ragioni della diffusione di tipologie contrattuali atipiche non ai profondi cambiamenti intervenuti nel mondo del lavoro, quanto alla rigidità in uscita che da sempre contraddistingue il nostro diritto del lavoro. Riproporre, per i mercati del lavoro del nuovo millennio, il modello assorbente del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato significa allora negare la svolta del passaggio di secolo e fornire una risposta vecchia a problemi e situazioni del tutto nuovi. E' sufficiente rileggere il concetto di stagionalità per capire quanto il mercato del lavoro sia cambiato e come non sia possibile procedere con una risposta unificante. Sicuramente l'esito parziale che viene ora consegnato al Parlamento è molto meglio del progetto di contratto unico, inizialmente prospettato dal Governo. E convincente è la scelta di fare dell'apprendistato il contratto prevalente per l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. L'impianto complessivo appare tuttavia alquanto rigido e preoccupa quanti sono consapevoli che il vero problema del mercato del lavoro italiano non sono i contratti temporanei, bensì il lavoro nero e la mancanza di percorsi di occupabilità attraverso una maggiore e migliore integrazione tra la scuola e il lavoro. È davvero il regime di protezione dell'impiego italiano a spiegare, da solo, i dati del mercato del lavoro e, addirittura, il deficit di competitività del nostro Paese? A febbraio era sfuggita ai tecnici del Governo una ottimistica previsione, in termini di calo dello spread a seguito della riforma del mercato del lavoro, che è stata già commentata sul bollettino Adapt. I dati confermano che dal giorno di presentazione della nuova riforma del mercato del lavoro ad oggi l'ormai celebre spread tra il rendimento dei titoli di Stato italiani e quelli tedeschi non solo non è diminuito, ma è peggiorato. Un altro segnale del fatto che la ragione di tutti i ritardi italiani non è la protezione dell'impiego, quanto la sempre minore propensione ad assumere che caratterizza le nostre imprese per motivi che ha bene indicato il nuovo presidente di Confindustria: eccesso di burocrazia, elevato costo del lavoro, mancanza di infrastrutture, prezzo dell'energia. Per questo, facendo qualche calcolo, la somma totale dei nuovi posti di lavoro creati da questa riforma pare essere invariata, se non addirittura negativa, almeno nel breve periodo. Emmanuele Massagli Presidente Adapt Michele Tiraboschi Direttore Centro Studi Marco Biagi Consultazione sulla (non) abolizione del valore legale del titolo di studio / 1 Qualcosa parrebbe muoversi nella discussione in merito al valore legale del titolo di studio, ma certo non sarebbe ragionevole essere ottimisti. Nelle scorse settimane il governo di Mario Monti aveva annunciato una drastica riforma e poi, nei fatti, ha finito per rimediare un'autentica figuraccia, quando varie ore di consiglio dei ministri sono servite solo a rinviare il tutto. In quell'occasione, al premier che avrebbe voluto abolire il valore legale si sono opposti numerosi ministri, determinati a lasciare tutto così com'è adesso. E il risultato è che si è deciso di soprassedere in vista di tempi migliori. La "Consultazione pubblica sul valore legale del titolo di studio" , a cui si può accedere tramite il portale del Ministero dell'Istruzione, nasce da qui. Non sapendo bene cosa fare, il governo si è inventato questo percorso "deliberativo" che in qualche modo prova a interpellare un po' tutti %u2013 docenti, professionisti, genitori, studenti ecc. %u2013 sulla base di quindici semplici interrogativi. La strategia di fondo di chi ha predisposto il questionario, però, è molto chiara. La struttura dei quesiti, infatti, risponde non già a uno schema binario (favorevole oppure contrario), ma trinario. A ogni domanda si può rispondere sostenendo la necessità che il valore legale sia abolito oppure al contrario preservato, ma anche individuando una posizione più sfumata: in modo tale %u2013 è questa la scelta di "buonsenso" suggerita tra le righe %u2013 che un ingegnere chimico non possa fare il chirurgo, o che un esperto in diritto amministrativo non progetti ponti o palazzi, e via dicendo. L'intenzione di chi ha predisposto la consultazione emerge in modo assai nitido: spaccare in tre gruppi le opinioni manifestate dai partecipanti alla consultazione e lasciarsi le mani libere, in modo tale da adottare %u2013 secondo metodi ben noti %u2013 soluzioni gattopardesche. Dopo aver liberalizzato le professioni senza liberalizzare e dopo aver riformato il mercato del lavoro senza riformare, ci si appresta insomma ad abolire il valore legale del titolo di studio senza abolirlo. È anche interessante constatare come nei ben quindici quesiti della consultazione nessuno tocchi il tema teorico cruciale: ossia, l'esigenza di liberare il sistema educativo dal controllo statale. L'idea di sottrarre il mondo della scuola e quello dell'università dal controllo che il potere politica esercita su di essi non è neppure presa in considerazione, e l'intera questione del valore legale (che implica programmi ministeriali, sistemi di valutazione, certificazioni dall'alto, parificazioni, ecc.) è confinata in questioni di ordine tecnico-amministrativo. D'altra parte, sarebbe da illusi pretendere che in un Paese come l'Italia ci si possa davvero dirigere verso un'autentica svolta su tali questioni. Nelle scorse settimane ho aderito a un'iniziativa dei radicali in tema di abolizione del valore legale del titolo di studio, connessa anche alla richiesta di liberalizzare le rette universitarie. In seguito, ho preso anche parte a un dibattito, nell'università di Siena, organizzato da Radio Radicale e dal Collettivo Studentesco proprio su quelle proposte ed è stato evidente %u2013 nel corso della discussione %u2013 come una parte rilevante degli studenti (specialmente tra quelli più ideologizzati) sia schierata a difesa dello status quo e contraria a ogni forma di apertura al mercato e al pluralismo. Chi in un primo tempo ha magari sperato che l'attuale governo, almeno su questo, intendesse seguire le sagge indicazioni formulate da Luigi Einaudi nella sua "predica inutile" su Scuola e libertà temo dovrà dunque ricredersi. Ma speriamo non sia così.
pinco pallo, 15-04-2012 11:15

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