Pisa riparte dal Municipio dei Beni Comuni

Mentre è in corso l'occupazione del Teatro Rossi, riapre a Pisa la sede dell'ex Colorificio Toscano, dismesso nel 2008 ed oggi divenuto sede del Municipio dei Beni Comuni, che si propone di dare spazio ad attività che generino “benessere, solidarietà e socialità a costo zero”. A suggellare l'evento la pubblicazione del libro “Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva” con interventi di studiosi ed attivisti sul valore dei comuni nei territori colonizzati dalla globalizzazione.

Pisa riparte dal Municipio dei Beni Comuni
Lo scorso 20 Ottobre a Pisa il Municipio dei Beni Comuni ha liberato i capannoni di una sede industriale abbandonata dal 2008, l'ex Colorificio Toscano in via Montelungo. Preceduto da un corteo giocoso e colorato (ma altamente militarizzato), “il gesto creativo contro la crisi” da parte del Municipio è stato circondato in brevissimo tempo dal sostegno e dall'interesse di associazioni e cittadini. Dopo la riapertura dell'ex-impianto il Municipio ha infatti ricevuto il sostegno del mondo del lavoro (operai della FIAT di Pomigliano, giuslavoristi, delegati Rsu della Fiom di Piaggio, Vodafone, Continental, Scienzia Machinale, Gkn, Terim, dalla redazione di Controlacrisi.org, e da un membro del direttivo Flc di Pisa) e delle associazioni (Teatro delle Valle, Leoncavallo), mentre si susseguono le iniziative per ripensare il riutilizzo degli oltre diecimila metri quadri su cui sorgeva una delle sedi industriali più importanti di Pisa. Per gli attivisti del Municipio la riapertura di questi spazi ha un profondo significato simbolico: si tratta di riaffermare il valore della partecipazione sociale in un momento di profonda crisi, non solo economica, ma anche politica e culturale. Di qui, spiega il comunicato del Municipio, “la scelta del Colorificio Toscano, uno dei simboli della storia industriale della città, oggi in stato di totale abbandono dopo la chiusura nel 2008 decisa dall'attuale proprietà, il gruppo J Colors. Con il licenziamento degli ultimi addetti, la multinazionale ha sancito la fine di un'esperienza che a Pisa, per quasi cento anni, ha significato una produzione d'avanguardia e lavoro per molte persone. Là dove c'era la vita, oggi regna il silenzio di un luogo che sembrava ormai attendere incerto il futuro, o la solita variante urbanistica che permettesse di riversare altro cemento per costruire case alle porte di Piazza dei Miracoli. Recuperare, riutilizzare e riqualificare gli immobili già esistenti, sottrarli alle speculazioni, evitare nuovo e indiscriminato consumo di suolo e da oggi provare a ridare un futuro a un sito produttivo dissanguato da una multinazionale: sono solo alcuni dei motivi che hanno condotto il Municipio dei Beni Comuni a riaprire il Colorificio Toscano, riaffermando il diritto di tutte e di tutti a incidere con la propria partecipazione sui processi reali. Qui troveranno spazio ora attività che generano benessere, ricchezza di relazioni, economie solidali, divertimento e solidarietà, a costo zero”. Dietro la riapertura dell'ex Colorificio vi è una lunga e travagliata storia, quella del Progetto Rebeldia, che dal 2003 riunisce gruppi ed associazioni ospitando, fra l'altro, in quella che era la sede di Via Battisti, la parete di arrampicata, la Ciclofficina, i corsi d'italiano, gli scambi del Gruppo di Acquisto Solidale, gli sportelli legali per i migranti, la biblioteca e il cineclub, la caffetteria equo-solidale, cene vegetariane, concerti e manifestazioni culturali. Rimasto senza sede dal 2011 (già sfrattato nel 2007) il Progetto Rebeldia aveva raccolto lo scorso anno in poche settimane 3500 adesioni per una petizione popolare che ne rivendicava il diritto ad uno spazio fisico. Oggi, grazie alla passione ed alla tenacia degli attivisti del Municipio, è possibile sperare di nuovo in una ripresa delle attività di Rebeldia presso i locali di Via Montelungo. A suggello dell'evento è stato realizzato un volume: “Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva” (¡RebeldiaEdizioni 2012), al quale hanno collaborato studenti, attivisti, ricercatori ed esperti dei beni comuni, del consumo critico e dello sviluppo sostenibile. Il libro offre un'importante cornice critica per ripensare la funzione dei comuni nel contesto attuale della globalizzazione, fornendo dati, ricostruzioni ed esempi concreti nel territorio. A questo scopo i contributi degli esperti Maria Rosaria Marella ed Ugo Mattei pongono l'accento sulla questione giuridica della riappropriazione del comune versus il privato, riferendosi a precedenti illustri, come le esperienze del Teatro Valle a Roma e di Macao a Milano. In proposito Marella osserva che gli occupanti non sono mai interessati a contestare il diritto di proprietà dei beni abbandonati, siano essi pubblici o privati, bensì a sottrarre tali aree dall'abbandono e dall'incuria: “molte di queste esperienze dimostrano come anche sul piano giuridico vada affermandosi la legittimità dell’uso comune contro la proprietà, tanto più che queste occupazioni riguardano sempre beni dismessi, lasciati in abbandono, in qualche misura distratti da quella funzione sociale che conferisce dignità costituzionale al diritto di proprietà. (…) Credo che intenda questo Rodotà quando dice che l’art. 42 della costituzione deve essere riletto dissociando l’accesso ai beni dalla titolarità della proprietà e dunque ripensando la funzione sociale come possibilità di uso garantita a chi non è proprietario”. A sua volta Ugo Mattei, riferendosi al caso di Torre Galfa a Milano, sottolinea che la valorizzazione degli immobili ufficialmente espropriati o confiscati adempie l'obbligo costituzionale di solidarietà sociale, soprattutto in un periodo come quello attuale, in cui il bisogno di spazi pubblici è sempre più forte. Secondo Mattei lo sgombero di Macao segnala lo stravolgimento dell'articolo 42 della Costituzione, affermando l'urgenza di emancipare quest'ultima dalle incrostazioni neo-liberali che ne limitano l'equa applicazione. Si situano in questa cornice la necessità della conversione ecologica, proposta da Guido Viale come cambio di rotta generale, e del blocco del consumo di territorio, su cui si sofferma Paolo Berdini. La seconda parte del libro offre un'accurata ricostruzione storico-economica della funzione del Colorificio Toscano a Pisa, a cominciare dall'intervento di Francesco Gesualdi, che lo colloca criticamente nel contesto della globalizzazione, e di Marco Barbato e Fausto Pascali, che risalgono al sistema delle scatole cinesi della J Colors S.p.A.. Approfondimenti critici delle dinamiche della globalizzazione all'estero vengono da Danilo Soscia, che propone l'esempio della Cina del Sud, e da Marco Barbato, che prende in esame l'isola di Madeira, paradiso fiscale al largo del Portogallo. Ma la storia del Colorificio Toscano è anche e soprattutto una storia di marchi, raccontati da Pierpaolo Corradini, e del tessuto industriale di Pisa, come documentano gli accurati interventi di Mauro Stampacchia, Bruno Settis e Stefano Gallo, Cinzia Colosimo e Giusi Di Pietro. Si tratta di contributi significativi che fanno riflettere sulla singolare storia industriale di Pisa, collocata da Arturo Labriola fra le province più nettamente industrializzate, benché, osservano Bruno Settis e Stefano Gallo, il tessuto industriale vero e proprio fosse quello della piccola e media impresa manifatturiera, che offriva una forza-lavoro semi-qualificata e poco costosa, dunque più allettante per gli imprenditori stranieri, come attesta il caso stesso del Colorificio. Quest'ultimo fu fondato dal chimico inglese Alfred Houlston Morgan e passa dopo alterne vicende alla gestione di J Colors solo negli Anni Novanta. “Un brutto affare”, commentano a questo riguardo Cinzia Colosimo e Giusi Di Pietro, focalizzandosi sulle dure condizioni di lavoro subite dai lavoratori dello stabilimento fino allo smantellamento dell'azienda. A ciò si aggiunge il recente esempio, certamente non edificante, offerto dalla J Colors dopo il recente terremoto in Emilia negli stabilimenti di Finale, un caso riportato da Domenico Veneziano e Vittorio Gualtieri. Il quadro mostra, secondo Mauro Stampacchia, che “Pisa non diventa mai totalmente una città tutta ed esclusivamente industriale. Anzi, subisce alti e bassi, un declino di un settore e la crescita di un altro, che rendono la sua industrializzazione una 'industrializzazione dalle mille anime', secondo la formula di Giuliana Biagioli, o, come invece scrive Gian Carlo Falco, una 'industrializzazione imperfetta'”. L'effettivo potenziale di Pisa sta nel suo capitale immateriale, ovvero nella produzione di conoscenza resa disponibile soprattutto dai poli universitari, ma – osserva ancora Stampacchia - “questa prospettiva sembra essere stata più proclamata che concretamente perseguita, rimanendo però una delle più rilevanti scommesse per il futuro”. Il libro pone, quindi, di fronte ad una doppia necessità: da un lato, si tratta di interrogarsi seriamente sull'uso che si dovrebbe fare degli insediamenti industriali, di come riconvertirli in conformità alle esigenze del territorio e dei cittadini. Dall'altro occorre recuperare, con le parole di Bruno Settis e Stefano Gallo, “una memoria troppo a lungo rimossa, quella del lavoro e della produzione materiale, nella costruzione di una reciproca integrazione, a partire dalla dimensione cittadina. Potrebbe essere l'occasione per far sì che Pisa non sia più una 'smemorata Macondo', ma una città consapevole della propria storia”.

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